Il Festival PHONOSOPHIA 2025 al Museo Nitsch di Napoli
Intervista a Leopoldo Siano di Claudia Baginski (5 luglio 2025)

CB Quest’anno il Festival PHONOSOPHIA, alla sua seconda edizione, ha avuto
luogo a Napoli.

LS Sì, qui in Magna Grecia, era anche ora… In realtà quest’anno non speravamo più
di farcela. Per vari motivi pratico-astrologico-organizzativi eravamo quasi già
rassegnati a rimandare il Festival al prossimo anno. Un altro luogo a cui si era pensato
è il Convento di Montecarlo a Valdarno (Fondazione Be.St.), dove lo scorso autunno
organizzammo una giornata dedicata all’ascolto della musica di Bruckner e dei suoi
contenuti sapienzali… Ma poi grazie alla disponibilità e al sostegno della Fondazione
Morra, seppur all’ultimo momento, abbiamo deciso di realizzare questa ‘festa della
conoscenza attraverso il suono per il solstizio d’estate’ al Museo Archivio Laboratorio
Hermann Nitsch, luogo unico e auratico, dove abitiamo da due anni. Resteremo qui
fino alla fine del 2025 per portare a termine la nostra ‘residenza di ricerca’ col theatrum phonosophicum,

periodo intenso di studio e sperimentazione. Fondamentale
è stato – non da ultimo – il generoso aiuto di giovani amici del posto che hanno reso
possibile queste tre intense ed armoniose giornate.

CB Lo scorso anno il Festival PHONOSOPHIA fu invece ad Attigliano.

LS Sì, la prima edizione del 2024 è stata ospitata dall’Istituto Simmetria, al Museo dei
Miti, dei Riti e dei Simboli. Claudio Lanzi con la sua Fondazione omonima e la sua
energica équipe ci ha dato una buona occasione per lanciare questo Festival, da poco
arrivati in Italia, dopo lunghi periodi in Armenia e tanti anni di Germania. Io e
Shushan siamo stati assai contenti di aver fatto il Festival ad Attigliano lo scorso anno;
è un luogo speciale, sul principiare dell’Umbria, tra verdi colline, al confine col Lazio:
non lontano dal ‘Sacro Bosco’ di Bomarzo. Per il solstizio estivo del 2024 abbiamo
avuto ospiti prestigiosi, tra cui Angelo Tonelli, il poeta-grecista-performer della scuola
di Giorgio Colli; Nicola Cisternino, compositore-azionista-artista visivo, studioso e
interprete dell’opera di Giacinto Scelsi e di Luigi Nono, nonché allievo prediletto di
Sylvano Bussotti; Bruno Binggeli, l’astrofisico svizzero che ha dedicato la vita a
Dante e alla musica delle sfere… Quest’anno a Napoli è stato diverso. Il luogo in cui
fai qualcosa inevitabilmente ti influenza. Per noi ha un particolare significato aver
realizzato questo Festival PHONOSOPHIA in Magna Grecia, al Sud d’Italia, che è
stato abitato da tanti sapienti: da Parmenide a Pitagora a Empedocle… È un luogo in
cui sentiamo di essere in un certo modo ‘ritornati’: un nostos, metafisicamente
inteso… (Ma è di una ‘metafisica concreta’ che si tratta). Una volta Mary
Bauermeister ci disse, fulminea – come era il suo solito: “Ihr gehört dem Süden“ (Voi
appartenete al Sud)! Eravamo seduti nel suo giardino a Forsbach, all’inizio della
primavera del 2022. Eravamo appena tornati da un soggiorno di cinque mesi in
Armenia, e le avevamo appena raccontato del nostro proposito, maturato a poco a
poco, di abbandonare definitivamente la Germania per trasferirci a Yerevan. Dopo
quasi un anno in Armenia poi, per rocambolesche vicissitudini, senza volerlo (per lo
meno a livello cosciente: il daimon fa il suo lavoro anche indipendentemente da
noi…), siamo sbarcati a Napoli… E oramai è qui che ci siamo stabiliti e dove
intendiamo affondare sempre di più le nostre radici. Neapolis è adesso la sede del
theatrum phonosophicum. È in questo luogo che vogliamo vivere… vivere per dare,
condividere con gli altri la magia della realtà… E poi il Museo Nitsch è un luogo a cui
noi, per motivi biografici, siamo particolarmente legati… Abbiamo coinvolto diversi
giovani creativi residenti in zona, e il Festival è stato visitato da moltissimi giovani,
direi: quasi prevalentemente da giovani.

CB Ciò significa che il lavoro phonosophico, la “via della conoscenza attraverso il
suono”, ha risonanza su un pubblico giovane alla ricerca di qualcosa…

LS Direi proprio di sì. Sta succedendo ciò che successe anche in Armenia. Tanti
giovani, artisti o in generale persone creative, si sono sentite attratte dalle attività del
theatrum phonosophicum.

CB Una sorta di inspiegabile magnetismo risonante…

LS Questo dipende dal nostro approccio e dalla varietà dei temi trattati – in questa
seconda edizione: dal soundscape al canto armonico, dall’ecologia acustica all’arte
acusmatica, dal tantrismo kashmiro a maestri armeni del Novecento. Con respiro
cosmopolita abbiamo voluto celebrare il ‘mezzogiorno dell’anno’, cioè il solstizio
d’estate, con giornate dedicate alla conoscenza attraverso il suono e all’‘ascolto totale’,
creando spazi esperienziali sinestetici in cui antichi saperi tradizionali vanno a
coniugarsi con pratiche sperimentali del XX e XXI secolo. Anche quest’anno vi sono
stati eventi di diverso tipo: lecture-performance, azioni sonore, rituali di ascolto,
install’Azioni, letture poetico-filosofiche, ‘cinema per le orecchie’ e workshops.

CB Qual è l’intenzione di fondo che vi spinge ad agire con queste attività
phonosophiche?

LS Mettere in moto qualcosa, senz’altro… Non è che uno abbia un’intenzione precisa.
I propositi, i desideri sono tanti… Ma certo c’è un asse ben definito, una linea: “Draw
a straight line and follow it”, come diceva La Monte Young… E Joseph Campbell:
“Follow your Bliss”! Beh, sicuramente v’è l’intenzione di comunicare la passione per i
suoni, di risvegliare all’ascolto, di sensibilizzare ai miracoli acustici attorno a noi e
dentro di noi. E in generale v’è il desiderio di contagiare gli altri con il nostro amore
per le opere d’arte. Alla fin fine è un modo per stare insieme ad amici, un festeggiare
determinati momenti dell’anno in maniera sensata, focalizzata, concentrandosi su ciò
che ci interessa… Il suono, e l’arte in generale, ha la capacità di trasportarci in un
altrove e allo stesso tempo più intensamente nel qui e ora. L’arte ha il potere di
intensificare la nostra sensazione di essere vivi.

CB Ma perché il solstizio d’estate è così importante?

LS È il Trionfo della Luce! In questo giorno si celebrano le nozze del Sole e della
Luna. È il momento della massima ascesa del sole, ma al contempo del cominciamento
della sua discesa dopo il climax. È come se il sole fosse stato ferito a morte dalla
freccia scagliata da un arciere. Pochi giorni dopo, il 24 giugno, si festeggia San
Giovanni Battista, il santo decapitato: il sole cade insieme alla sua testa. È il ‘San
Giovanni che piange’; mentre San Giovanni Evangelista è il ‘San Giovanni che ride’.
Lo si festeggia il 27 dicembre, pochi giorni dopo il solstizio d’inverno. Così i due
Giovanni sono, così per dire, i custodi delle porte solstiziali. Vi sono varie opere d’arte
dedicate alla festa di San Giovanni: lo shakespeareano Midsummer Night’s Dream (di
cui esistono versioni musicali di Mendelssohn, Britten); poi i Meistersinger di Richard
Wagner, come anche La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio: “E domani è San
Giovanni, / fratel caro; è San Giovanni. // Su la Plaia me ne vo’ gire, / per vedere il
capo mozzo / dentro il Sole, all’apparire, / per veder nel piatto d’oro / tutto il sangue
ribollire”.

CB Proprio all’inizio della prima giornata del Festival, durante il seminario mattutino
dedicato agli studi sul ‘paesaggio sonoro’ – che sono soprattutto di stampo canadese
(Murray Schafer & Company) – hai citato stranamente proprio D’Annunzio. Un
ecletticismo – o meglio ancora: un sincretismo – che mi sembra ormai peculiare per il
theatrum phonosophicum

LS Eh sì, è l’idea di cui facevo cenno poc’anzi: connettere saperi tradizionali con
pratiche sperimentali. A fondamento dell’avventura phonosophica ci sono sia Morton
Feldman che Athanasius Kircher, sia Marius Schneider che François Bayle… Ci
muoviamo con grande libertà, selvaggiamente (per dirla con Giuseppe Montesano),
dalla sound art alla filosofia presocratica, da John Cage a Martin Heidegger, dallo
Hörspiel e la ‘poesia sonora’ al dramma wagneriano, dalla musica elettroacustica ai
testi dell’antica India, da Johann Sebastian Bach a James Joyce, dalla filosofia
buddhista di Nagarjuna a Skrjabin, dal deep listening di Pauline Oliveros alla ‘sonic
matter’ di Francisco López, dai canti dei pigmei a Joseph Beuys eccetera eccetera.

CB Ma perché Gabriele D’Annunzio?

LS A prescindere dal fatto che abbiamo dedicato alcuni anni orsono un intero lavoro
sonoro a D’Annunzio, il Theatrum Memoriae, nel seminario sul soundscape ho voluto
citare una ‘prosa sperimentale’ da Il secondo amante di Lucrezia Buti, dove egli si
autodefinisce “Ariel musicus”: per D’Annunzio musico è innanzitutto chi sa ascoltare
con la massima concentrazione, chi coltiva l’arte dell’ascolto; chi è capace di
auscultare le inflessioni più sottili della materia sonora: quindi il ritmo, il timbro, i
silenzi… È musico chi è attento: chi sa cogliere il peculiare timbro di una risata,
l’esitazione racchiusa in una pausa, le intenzioni segrete che si celano nel corpo e nella
grana della voce, le intercapedini di un respiro… D’Annunzio aveva capito che
l’acusticità offre una chiave d’accesso privilegiata alla conoscenza del mondo.

CB Come spesso capita agli eventi del theatrum phonosophicum, il pubblico veniva
accolto da testure acustiche che sono tutt’altro che ‘musica di sottofondo’ (…
abominevole abitudine!), richiedono piuttosto di essere ascoltate con la più grande
attenzione.

LS È anche per evitare il chiacchiericcio usuale delle persone che frequentano eventi
‘artistico-culturali’. È essenziale creare un campo magnetico di raccoglimento, rituale,
per favorire la fuoriuscita dal ‘mondo profano’, cosicché da mettere il pubblico subito
in uno stato altro della mente e del corpo. È una cosa che ho imparato da Stockhausen
e da Eloy, osservandoli lavorare – ma anche da Nitsch.

CB La mattina del venerdì 20 giugno, già prima di arrivare alla Capriata, appena
entrati nel Museo Nitsch si sentivano dei suoni di estremo fascino… Che suoni erano?

LS Era Magia Naturalis, un’installazione sonora creata da me e Shushan Hyusnunts
nel 2019 sulla base di registrazioni di un’arpa eolia e di monocordi, da noi poi
elaborate elettroacusticamente. Il libro di Murray Schafer sul ‘paesaggio sonoro’ si
apre con una illustrazione secentesca dall’Utriusque Cosmi di Robert Fludd: il
‘Monocordo del Mondo’. Il cosmo viene rappresentato come ordine armonico, e il
gigantesco monocordo viene accordato da una mano divina. Non a caso il sottotitolo
del libro di Schafer è “The Tuning of the World” (l’accordatura del mondo)… Il
Weltordnung, l’‘ordine del mondo’ è incomprensibile per la ragione. Forse, chissà,
financo le guerre su questo pianeta dipendono da eventi lassù e laggiù nell’ignoto.
L’armonia è un concetto sublime e complesso, essendo Harmonia una fanciulla frutto
dell’unione segreta di Afrodite (dea dell’amore e della bellezza) e Ares (dio del
conflitto): una coincidentia oppositorum. E come ci ricorda Eraclito, l’harmonia
aphanes, quella ‘occulta’, è più potente di quella ‘palese’: di ciò che abitualmente si
considera ‘armonioso’, ma che poi rischia ben presto di divenire ‘ice cream’ (come
ogni gelato: ‘creamy’, ‘smooth’, ‘sweet’…), centro wellness per ricchi o new age
V’è un’armonia superiore che comprende in sé non solo consonanze perfette, bensì
pure dissonanze e rumori. L’harmonia mundi: ha qualcosa di abissale… Ed è
all’apparenza anche labile: forse che ci siano degli ‘errori’ nella Creazione stessa?
Così suggerisce Isaak Luria, ad esempio, con la cosiddetta ‘rottura dei vasi’…
Secondo i maestri della tradizione midrascica il nostro mondo sarebbe il risultato del
ventottesimo tentativo di Dio, che dopo aver creato e distrutto diversi mondi, dinanzi a
questa Creazione esclamò: “Haleva Sheyaamod” (speriamo che tenga)! Col suono
dell’arpa eolia si ha un’evocazione dell’harmonia mundi; è uno strumento che non
viene suonato da mano umana, bensì dal vento. Viene perciò anche detta ‘arpa eolia’.
Come per magia, ad ogni folata di evento, emergono nuvole di armonici naturali… Ed
è per questo che l’abbiamo intitolata Magia Naturalis, come tributo a Giordano Bruno
e Giovanni Battista Della Porta, tout court alla filosofia italiana del Rinascimento vista
anche un po’ attraverso la lente della Naturphilosophie e della Romantik tedesca. (Non
si dimentichi che fu proprio Schelling uno dei primi a dedicare particolare attenzione
agli scritti di Bruno). Il luogo dove abbiamo registrato questa arpa eolia è una caverna
sul Brocken, montagna tanto amata da Goethe, da Caspar David Friedrich e dai poeti
romantici – che d’altronde ebbero un vero e proprio culto per l’arpa eolia. Tra gli altri
Mörike le ha dedicato un componimento poetico, poi messo in musica da Hugo Wolf.

CB Ciascuna giornata del Festival PHONOSOPHIA aveva un titolo. La prima era
intitolata Sepeithos. L’ascolto del fiume scomparso; la seconda La luce del teatro, la
luce del suono; e la terza: Radici in cielo e in terra. Potresti spiegarci questi titoli
raccontandoci un po’ come si sono svolte queste giornate?

LS La prima mattinata – assai concentrata e raccolta, con un pubblico attentissimo e
sensibile – è stata dedicata al soundscape, a quel campo di studi inaugurato in Canada
da Murray Schafer con i suoi allievi. Partendo dall’assunto cageano che “there is no
such thing as silence” e che dunque il mondo è musica, Schafer si è dedicato
sistematicamente all’ascolto e all’analisi del ‘paesaggio sonoro’, inaugurando tutta una
gloriosa tradizione di studi basata sulle ‘field recordings’… Si sono fatti diversi
esercizi di ascolto, anche ad occhi bendati. Il titolo della giornata si rifà ad un nostro
progetto in progress sull’ascolto del fiume scomparso di Napoli, il Sebeto – o
Sepeithos, come lo chiamavano i Greci. L’ascolto di questo fiume diviene per noi una
metafora dell’ascolto totale: per un ascolto epico, per l’ascolto di una polifonia di
secoli e millenni, della simultaneità del Tutto, dell’auscultazione dell’oceano caotico
dell’inconscio: l’ascolto dell’Ereignis, dell’evento heideggerianamente inteso, ma
anche nel senso di Hermann Nitsch – il quale del resto integrò il paesaggio di
Prinzendorf nel suo teatro… V’è una storiella zen in cui l’allievo va dal maestro e gli
chiede: “Che cos’è lo zen?”, al che il maestro risponde: “Lo senti lo scorrere del
fiume?”; l’allievo è del tutto disorientato: la sua mente era così agitata, così occupata a
cercar di comprendere razionalmente il mondo, che non sentiva lo scorrere naturale
delle cose, il fluire dell’essere che è il divenire, dentro e fuori di sé… Se pensi, non
ascolti.

CB Al pomeriggio ci si è invece concentrati sul ‘cinema pour les oreilles’, una
tradizione – come quella del soundscape – altrettanto canadese.

LS Sì, è così che in Canada compositori quali Francis Dhomont, Gilles Gobeil e
Robert Normandeau hanno usato definire il proprio lavoro, che in fondo si sviluppa
senza soluzione di continuità sulla falsariga della tradizione francese della musique
concrète e acousmatique. Dhomont è infatti francese poi emigrato in Canada, il padre
del cosiddetto ‘melodramma acusmatico’, uno dei primi sperimentatori ‘concreti’ già
negli anni Quaranta, all’inizio persino indipendentemente da Pierre Schaeffer. Luc
Ferrari è un altro geniale rappresentante di questo genere con la sua ‘musica
aneddotica’, che è appunto una sorta di ‘cinema per le orecchie’. Il sottotitolo di Gaku
no-Michi di Jean-Claude Eloy, epico affresco elettroacustico realizzato in Giappone
nella seconda metà degli anni Settanta, è appunto: ‘film sans images’. Anche se poi in
fondo è con ‘immagini sonore’ che si ha a che fare, con ‘fotografie di suoni’. La
musica concreta o acusmatica, così come è stata ribattezzata da Bayle, è una musica
gestuale, teatrale, nata grazie alla rivoluzione elettrica: forse la più grande rivoluzione
antropologica dopo la scoperta del fuoco… La materia, la realtà stessa – o attraverso il
fuoco o attraverso l’elettricità – viene sottoposta a processi di trasformazione, viene
trasmutata. “Magia applicata”: così definì la tecnologia Coulianu, l’allievo rumeno di
Mircea Eliade. “La musique concrète est un enfant du théâtre et la radio d’essai fut son
berceau”, dice Bayle: la musica concreta è figlia del teatro e la radio fu la sua culla. Il
radiodramma: ascoltare teatro alla radio, senza vedere. Ecco la dimensione
acusmatica! Ma spesso si tratta di narrazioni sonore non-lineari, immaginarie,
frammentate, oniriche. Di Bayle abbiamo ascoltato qualche estratto dal Purgatoire,
che come sempre esercita un notevole effetto sugli ascoltatori. È un’opera in un certo
senso iniziatica: poetica e spirituale… (Non dimentichiamoci che Bayle, come Pierre
Schaffer, ha un background gurdjieffiano: egli è interessato principalmente alla
percezione, all’‘écoute de l’écoute’). Forse la musica elettroacustica, intesa come ‘arte
dei suoni fissati’ (su disco, nastro o su supporti digitali), non è più ‘musica’ nel senso
della tradizione, ma un altro tipo di arte. Essa sta alla musica vocale e strumentale
come il cinema sta al teatro. Il compositore non è più uno che scrive note sulla carta
(‘musica astratta’), bensì un ‘cacciatore di suoni’, un fotografo di immagini acustiche,
che poi manipola in studio a suo piacimento, a seconda della sua immaginazione e del
suo desiderio: attraverso trasposizioni, filtri, distorsioni, accelerazioni e decelerazioni,
inversioni temporali, montaggi, mixaggi, anamorfosi, sovrapposizioni etc. È – come il
pittore o lo scultore – a contatto diretto con la sua materia, con i suoi colori e la sua
tela. Il risultato finale del suo lavoro non ha da essere tradotto in suoni da strumentisti
che decifrano una partitura, ma viene proiettato direttamente in uno spazio buio
attraverso altoparlanti. Come nel caso del cinema, si ha una proiezione di immagini
(sonore) in movimento nello spazio. E nel caso dei suoni lo spazio viene ad avere una
dimensione spaziale ancora più essenziale. Lo studio elettroacustico diviene così ad
essere una sorta di ‘cucina alchemica’ in cui il compositore manipola la realtà sonora.
Con la musique concrète di Schaeffer – e tutto ciò che è venuto in seguito – si ha per la
prima volta il ‘Surrealismo in musica’. A differenza della musica astratta (‘musica di
note’) la musica concreta è ‘musica di suoni’; essa ha a disposizione il ‘totale
acustico’. La manipolazione degli oggetti sonori dà luogo a paesaggi surrealistici fatti
di figure uditive. Anche allievi di Murray Schafer quali Barry Truax e Hildegard
Westerkamp hanno lavorato in questa direzione con le loro ‘soundscape
compositions’. Nella prima giornata si è avuto modo di ascoltare diversi estratti di Into
India della Westerkamp, opera straordinaria; che poi è stata anche una sorta di ponte
gettato verso la seconda giornata del Festival, dedicata all’India appunto.

CB Alla sera del primo giorno si è avuto infine un omaggio al regista armeno Sergei
Parajanov, con un’introduzione di Shushan Hyusnunts al suo film più celebre: Il
colore della melagrana. Perché?

LS Parajanov è stato per noi un punto di riferimento e una costante fonte
d’ispirazione. Gli abbiamo dedicato vari progetti, sia in Germania che in Armenia. Il
collage acustico Asnamus, al confine tra il kitsch e il sacro, è a lui dedicato. Parajanov
è stato un grande artista del collage e dell’assemblage, un bricoleur selvaggio (anche
nel senso di Claude Lévi-Strauss). I suoi film, in particolare quello su Sayat Nova,
sono dei magistrali assemblages di immagini, azioni, parole… e suoni!

CB Passiamo alla seconda giornata: La luce del teatro, la luce del suono… Da dove
viene questo titolo?

LS Dal Tantraloka (“La luce dei Tantra”), un testo fondamentale di Abhinavagupta,
maestro kashmiro vissuto tra il X e l’XI secolo. Al mattino si è discusso il ‘suono
tantrico”, ovvero gli echi delle tradizioni shivaite su alcuni compositori del secolo
ventesimo, tra cui Giacinto Scelsi e Jean-Claude Eloy, affrontando alcuni concetti
chiave del tantrismo (spanda, anâhata, tapas, kundalini etc.) sulla base di esempi
sonori. A sorpresa è apparso, insieme a Francesco Capasso, il sommo scrittore di
Sant’Arpino: Giuseppe Montesano. È stato una gioia e un onore averlo tra di noi. Ho
voluto fargli un piccolo omaggio leggendo il suo testo su Abhinavagupta presente in
Lettori selvaggi: un testo, che per le sue torsioni grottesche, improvvise, scioccanti, ha
a che fare anche con i romanzi di Montesano come Nel corpo di Napoli, A capofitto o
Di questa vita menzognera… E poi al pomeriggio Vins Vassallo, giovane artista totale
(poesia, danza, teatro), che sulla base dei suoi studi condotti all’Università Orientale di
Napoli (lingua e letteratura sanscrita) e alle sue proprie personali ricerche, ha offerto
una travolgente lezione performativa in cui, oltre a preparare appositamente un
assemblage rituale di oggetti e sostanze dalla fortissima carica evocativa, ha illustrato
alcuni principi del tantrismo in connessione alla pratica teatrale. Non da ultimo vi sono
sorprendenti affinità tra i metodi dei tantrika e quelli dello Orgien Mysterien Theater.
Eppure Nitsch molto probabilmente non ebbe contatto diretto con gli scritti tantrici…
Io una sera, alla fine di una cena, gli chiesi se si fosse mai occupato di tantrismo.
Nitsch mi guardò e sottovoce, sornione, mi disse: “Dai un’occhiata ai miei disegni…”.
Poi si parlò d’altro. L’arte di Nitsch a suo modo è tantrica. Io lo avevo intuito già molti
anni fa. E mi fa piacere che Vins – da studioso di tantrismo, e non da ultimo grazie alla
sua recente esperienza in un’azione di tre giorni al Castello di Prinzendorf – abbia
colto la stessa cosa… Abbracciare il mondo in tutti i suoi aspetti, questo fa il tantrico.
Si butta a capofitto nelle onde furiose dell’esistenza, senza rifiutare nulla – ma pur
sempre rimanendo desto. Egli aspira ad essere un jivanmukta, un ‘liberato in vita’. Il
fine ultimo del tantrico è l’immersione in Shiva; l’inondazione divina è uno dei segni
inconfondibili dell’illuminazione tantrica che è un’esperienza subitanea (… in questo
senso ha in un certo modo a che fare col satori zen). L’arte di Nitsch è tantrica in
quanto ‘via dell’eccesso’. Il Grundexzess! Ma l’eccesso non è fine a sé stesso; è
soltanto uno strumento di intensificazione dell’essere. Una ricerca di intensità che è
Seinssuche. Come non ricordare William Blake? “The road of excess leads to the
palace of wisdom. […] You never know what is enough until you know what is more
than enough“. Una volta Nitsch scrisse: “Che tutto il sangue si trasformi in luce”!
Nella sua musica si sentono spesso degli immensi boati cosmici, penetranti o
addirittura strazianti: potrebbero essere considerati come una sorta di meditazioni
tantriche per la purificazione della mente. Un gesto tipico nella musica di Nitsch è
l’interruzione improvvisa del fracasso orgiastico: si ha cosi un brusco passaggio dalla
massima intensità e pienezza – al vuoto. Veniamo improvvisamente piombati nel
‘silenzio’. Ma dopo quest’eccesso acustico cominciamo ad assaporare e a vivere il
silenzio in maniera diversa… La filosofia tantrica è una ‘filosofia dello stupore’, un
modo per alimentare la meraviglia dinanzi al mondo nel qui e ora. Esperire una gioia
transpersonale. Una volta Nitsch scrisse che la gioia è il risultato del più duro lavoro al
dato di fatto che è l’essere… Sat-Chit-Ananda! La ‘convers’Azione’ pomeridiana di
Vins Vassallo è stata dedicata alla memoria di Mark Dyczkowski, grandissimo
studioso di tantrismo – anche se inviso negli ambienti accademici – , che fu uno dei
suoi maestri durante il periodo in cui visse a Varanasi. Vins tornerà in India alla fine di
questa estate, ci resterà sei mesi, questa volta però a Calcutta: dalla città di Shiva alla
città di Kali…

CB La serata del secondo giorno si è poi conclusa con un bellissimo concerto di
musica classica indiana. Renata Frana alla dilruba è stata accompagnata ai tambura da
Vins Vassallo e Shushan Hyusnunts.

LS Renata aveva già suonato al Museo il 22 aprile scorso per un indimenticabile
concerto in memoria del maestro viennese (“Raga for Nitsch”); questa volta ha
suonato un raga tipico del periodo dei monsoni, e alla fine anche alcuni pezzi dal
repertorio tradizionale afghano. Prima del concerto di Renata Frana ho voluto leggere
alcuni passi dal Vijñānabhairava per preparare il pubblico all’ascolto, per favorirne –
così per dire – lo ‘Zustand’. Eccoli:
“Chi sia sperimentato nel brahman-suono, inarticolato, non percepibile
all’udito, ininterrotto, corrente come un fiume, raggiunge il supremo brahman”.

“Per chi mediti sul momento iniziale e finale di qualsiasi fonema, questo grazie
alla vuota potenza diventa vuoto. Egli stesso si identifica con il vuoto”.

“Chi sia tutto concentrato sui suoni di strumenti musicali […], suoni prolungati e
che si succedono via via, alla fine si identifica con l’etere supremo”.

“Lo yogin, mediti, o grande Dea, come questo tutto sia diventato vuoto. La sua
mente si dissolve in esso ed egli gode allora della dissoluzione della mente”.

CB La terza giornata, ‘Radici in cielo e in terra’, si è aperta con un workshop
mattutino sull’ascolto profondo e il canto armonico, che ha riscosso grande interesse.
Quella mattina, nonostante il caldo torrido, risalendo il dedalo di vicoletti del quartiere
Avvocata, è affluito un mare di persone fin su al Museo Nitsch, un pubblico composto
quasi prevalentemente da giovani.

LS Il workshop l’ho condotto insieme alla francese Clara Tourres, che è una giovane
istruttrice di meditazione formatasi nella tradizione del ‘kundalini yoga’ di Yogi
Bhajan. Lavorare in gruppo col suono della propria voce ha sempre un effetto potente.
Il ‘canto armonico’ (overtone chanting in inglese, Obertongesang in tedesco) è
appunto il canto degli ‘armonici’, dei suoni che sono all’interno del suono. Ogni
singolo suono è un intero cosmo. Paradossalmente in ogni suono vi sono infiniti suoni.
Non tutti sono consapevoli della vita interiore del suono. Soltanto disponendo lo
spirito al silenzio e cantando a lungo ‘su una nota sola’ si cominciano a percepire i
cosiddetti ‘suoni armonici’ (detti anche ‘sovratoni’). È davvero un paradosso, qualcosa
che la nostra mente non può capire, cosicché viene costretta a tacere. È il mysterium
dello hèn tò Pân, dell’Uno-Tutto. Con una singola voce si producono due o più suoni.
Da un suono grave tenuto, il bordone, cominciano ad emergere dei suoni acuti e
cristallini, che spesso vengono paragonati a suoni angelici da chi li ascolta. In questo
senso il canto armonico è un ‘canto tantrico’ (si pensi al canto dei monaci tibetani!),
con cui si ha una connessione tra alto e basso, tra cielo e terra… Una volta imparato a
sentire questi suoni, la nostra percezione acustica si espande in maniera inattesa, il
nostro ascolto del mondo cambia radicalmente. L’incontro con la serie degli armonici
è un incontro con il numinoso. Questa forma di canto, in origine diffusa soltanto in
cerchie esoteriche, è tradizionalmente legata ad alcune regioni dell’Asia Centrale
(Mongolia, Tuva, Tibet). Essa fu (re-)introdotta in Occidente da Karlheinz
Stockhausen con Stimmung (1968) e in seguito diffusa da musicisti quali Michael
Vetter. È da lui che lo ho appreso. (Il tambura che abbiamo suonato durante il
workshop – e il concerto di Renata Frana – mi è stato donato proprio da Michael
Vetter…). Altre personalità che hanno svolto un ruolo importante nella diffusione del
canto armonico in Europa sono state Roberto Laneri, David Hykes e Jill Purce. La
conoscenza della serie degli armonici è probabilmente tanto antica quanto la musica.
Tuttavia anche per molti musicisti di professione essa rimane soltanto una questione
teorica della fisica acustica. In questo workshop abbiamo fatto un’esperienza diretta,
nel proprio corpo, delle meraviglie della serie degli armonici. Alcuni partecipanti sono
stati così toccati da questa esperienza in gruppo che hanno chiesto di ripeterla presto e
con regolarità. Infatti stiamo pensando di fondare un ‘Coro Armonico’ per la pratica
settimanale, oltre ad un ‘Drone Ensemble’…

CB Alla sera del 28 giugno, in chiusura del Festival, si è avuto – dopo quello a
Parajanov del 20 giugno – un ulteriore omaggio a maestri armeni del Novecento con
l’install’Azione Komitas & Gurdjieff (Ur-Melos) per ghironda, viola, pianoforte,
sintetizzatore, suoni registrati e vari strumenti rituali.

LS Ci teniamo a quell’apostrofo… Un ‘install’Azione’ non è né una pura
‘installazione’ né una pura ‘azione’, ma bensì una via di mezzo. Il pubblico era libero
di venire e di andare. Il centro è dappertutto… Ciononostante vi era una chiara
drammaturgia: chiara a noi che abbiamo agito con il suono, ma forse anche a chi è
venuto ad ascoltare, a esperire lo spazio. L’importante è capire che non si trattava di
un ‘concerto’. La situazione del concerto tradizionale ha ormai da essere
definitivamente superata, in nome del Gesamtkunstwerk e di dimensioni ‘altre’ di
ascolto. Abbiamo cominciato alle 19 in punto e terminato alle 21. Il pubblico era
accolto dalla ghirondista Carla Orbinati, la quale – suonando – vagava nel viale e sulla
terrazza del Museo Nitsch. Poi ad un certo punto si è saliti in Capriata, dove c’erano
già suoni in azione: Shushan con l’elettroacustica e il pianoforte, nostro figlio Bagrat
al sintetizzatore (nonostante la tenera età ha partecipato con grande solerzia e
precisione all’azione); e Margherita Cervo alla viola. Su un tappeto, al centro della
scena, vi era Clara Tourres, come ascoltatrice meditante, che eseguiva dei mudra: un
ruolo vagamente ispiratoci da Inori di Stockhausen… Carla, la suonatrice di ghironda,
un po’ come il pifferaio magico di Hamelin, si è portata dietro gran parte del pubblico,
conducendolo al piano superiore… Vi sono stati vari processi di intensificazione
sonora sulla base di segni gestuali concordati tra di noi. Si è lavorato soprattutto con
drones, con testure di jrric, campanelle etc. Io dirigevo intuitivamente nello spazio
seguendo una drammaturgia del suono definita soltanto a grandi linee, aggiungendo e
sottraendo strati sonori. Una prima culminazione si è avuta con la registrazione di un
impressionante dikr eseguito da sufi di Turchia. C’è stato poi un intermezzo narrativo,
una pausa dei suoni (… i musicisti si dovevano pure un po’ riposare!), durante la quale
ho letto brevi storie, autobiografiche e non: storie zen, taoiste, sufi, gnostiche,
chassidiche, cinesi, tibetane, storie su Gurdjieff, su Nitsch eccetera. Naturalmente c’è
stato tutto un lavoro di selezione dei materiali: a parte i suoni strumentali e varie
testure sonore elettroacustiche del theatrum phonosophicum, per la maggior parte dei
suoni utilizzati si trattava di registrazioni fatte da noi… Questa ‘install’Azione’ sonora
Komitas & Gurdjieff (Ur-Melos) è state l’evocazione rituale di un luogo dell’anima,
l’Armenia. Più che il luogo fisico con le sue montagne e i suoi monasteri e le sue
pietre che cantano, si è piuttosto evocato un paesaggio interiore, un mundus
imaginalis: frammenti di antichi canti e di memorie sonore registrate sul campo
durante i nostri viaggi in Caucaso, una sorta di diario acustico. Non ‘musica’, ma
azionismo e situazionismo sonoro. I suoni che sono come sono e che divengono nello
spazio. Attitudine di ascolto totale, a 360 gradi. Il suono, come sempre, è una
magnifica metafora della transitorietà: ogni cosa appare, ha una sua durata e scompare:
viene riassorbita dallo spazio… Un’install’Azione che è un omaggio esplicito a
Komitas e Gurdjieff, i quali – ciascuno a suo modo – si misero alla ricerca di antichi
canti, o meglio dello Ur-Melos: la recherche di un melos primordiale nel presente
arcaico… Quest’install’Azione è stata anche un omaggio ‘implicito’ a due altri grandi
maestri armeni: a Parajanov (maestro del bricolage), di cui abbiamo parlato poc’anzi –
e ad Avet Terterian, sinfonista e homo cosmicus, evocatore di vastità inenarrabili nel
tempo e nello spazio – e al di là di essi. (Una nostra installazione a lui dedicata si
chiama Akasha, che in sanscrito significa appunto ‘spazio’). Nella sua Settima Sinfonia
Terterian utilizzò una melodia ugaritica che un archeologo suo amico gli aveva fatto
scoprire: si tratta di una delle melodie più antiche del mondo, financo più antica
dell’Epitaffio di Sicilo. Così alla fine dell’install’Azione, un secondo flusso sonoro è
sfociato proprio in una sezione con una testura cosmica evocante una grande vastità, in
cui si è utilizzata proprio questa melodia ugaritica. La violista, Margherita Cervo –
rimasta tutta sola al centro della scena – , ha ripetuto innumerevoli volte questa
antichissima melodia, sempre più piano, anche dopo che i suoni registrati che la
circondavano si erano dissolti… È stato un momento toccante: la viola, praticamente
nuda, ripeteva quella semplice melodia fatta di sole tre note (do, re, mi), ma sempre
più piano, sempre più piano, fino a diventare silenzio… A Margherita questo graduale
decrescendo è riuscito molto bene, è stata particolarmente sensibile nel realizzarlo. È
entrata del tutto nello spirito della scena. Questo finale è stato anche un’allusione alla
Suite Lirica di Alban Berg, che finisce proprio con la viola sola che deve ripetere la
sua figura teoricamente ad infinitum, sempre più piano: ‘diminuendo’, ‘morendo’, “bis
zum völligen Verlöschen”… Non c’è il segno di battuta di chiusura alla fine. Tutto
rimane aperto: è un’apertura drammatica, su un baratro. La viola di Berg deve
continuare a suonare per sempre, al limite dell’udibile, in modo che la sua eco si
protragga a lungo, molto a lungo, nella psiche dell’ascoltatore. Lo spirito del finale
della nostra install’Azione con la melodia ugaritica è stato di certo diverso. Non si
tratta di un ‘morire’, ma piuttosto di uno spiritualizzarsi, un diventare sempre più
etereo, uno svanire in sfere superne… Un processo minimale, reiterativo, di estrema
riduzione: tutto sfocia nello Ur-Melos. Questo gesto finale della viola, questo svanire
gradualissimo – dopo aver esperito una grande pienezza ed eterogeneità sonora –, ci ha
a poco a poco condotto di nuovo al silenzio, cioè al paesaggio sonoro: i suoni della
sera napoletana sono riemersi, da lontano e da vicino. Molti ascoltatori sono rimasti
seduti tranquilli ad ascoltare ancora per molti minuti, quando la viola aveva già smesso
di suonare e abbandonato la scena. Pian piano la viola, sempre più piano, pianissimo,
pianissimissimo, ppppppppp, ci ha condotto tutti ad una dimensione più profonda
dell’ascolto, ad una profonda risonante calma, alla calma della sera, ha aperto un vasto
spazio. Un bel finale: siamo tornati al paesaggio sonoro, al punto da cui eravamo
partiti col Festival PHONOSOPHIA di quest’anno.